Bonaventura Tecchi «Scrittori tedeschi del ’900» (1941)

Recensione a Bonaventura Tecchi, Scrittori tedeschi del ’900 (Firenze, Parenti, 1941), in «Letteratura», a. V, n. 3, Firenze, luglio-settembre 1941, pp. 96-97.

BONAVENTURA TECCHI «Scrittori tedeschi del ’900»

Il presente è il primo di due volumi che si propongono di dare un quadro della letteratura tedesca moderna ed è quello che raccoglie i saggi piú brevi, forse meno impegnativi. E quindi un esame definitivo può valere solo dopo la pubblicazione del secondo volume. Ma già questa prima parte ci indica nel Tecchi un interesse non solo di recensore (e c’è anche una attitudine particolare alla recensione nel suo tono chiaro e descrittivo) e l’ambizione a dare «un’ idea di quel che è successo nella letteratura tedesca dal periodo fra le due guerre europee» e piú ancora a stabilire un sottinteso e severo confronto tra i moderni e gli antichi, una continua indagine sulla concretezza della nuova letteratura, sulla coerenza intima con una tradizione gloriosa di cui essa spesso si dice continuatrice. «Quel dono grande e pericoloso (di Goethe e Schiller, la loro affermazione del valore della vita) doveva essere accolto, anche nella intenzione dei donatori, con mani caute; non senza un ricordo forse di quel religioso timore di fronte al mistero che ebbero gli antichi e che non mancò in Goethe né in Schiller. Invece a me è sembrato che, nel volger degli anni, per via di equivoci e di incomprensioni o per fatale china di eventi, non di rado quel dono sia stato preso in senso edonistico, materiale e anche brutale». Accenno misurato, ma aperto ad un’indagine di civiltà letteraria che supera il semplice studio dei singoli autori.

Tanto piú che, a parte le dichiarate ed esagerate intenzioni, nessuna letteratura è piú di quella tedesca moderna accentrata intorno ad un senso della vita affermato con insistenza e retorica nei piú diversi dei suoi autori: la gioia di vivere, lo Streben dei grandi romantici ritornano ossessionanti e plumbei persino nell’elevato estetismo di Wiechert (specie nell’ultimo Das einfache Leben in cui non sapremmo trovare realizzato stilisticamente l’anelito ad una pace superiore esposto nel fascicolo Von den treuen Begleitern). Questo accenno ad un giudizio di tutta quella letteratura non è tanto svolto, esemplificato volutamente nei singoli saggi, quanto risentito nell’impressione generalmente oppressiva di un piú inestetico, volontaristico, di scarsa purezza, riscaldato da un alito non celeste, che l’autore sa esprimere dalla ricostruzione serena dei testi che ripresenta. Come pure la lettura dei saggi è implicitamente emozionata dal dramma di quella civiltà letteraria nel dopoguerra europeistico, disfattista e insieme preludio e affermazione della nuova guerra. Diremmo insomma che il libro non ha tanto una unità esplicita e vigorosa quanto suggerisce, nel lettore esperto dei testi studiati, delle impressioni generali prima dei particolari giudizi.

Vengono prima i libri ispirati dalla guerra, quelli che accusano e quelli che esaltano: Remarque, A. Zweig, Renn, Glaeser, e subito interessa rilevare che, nelle diversità piú evidenti, Tecchi sa trovare anche un certo tono comune, che è poi la forza e la monotonia di tutta quella letteratura: «Il libro (dice di Nichts neues im West) è tutto tedesco, anche se chiaramente un libro di sconfitta. Proprio in questo contrasto tra inauditi realismi e atrocità, e le improvvise défaillances sentimentali è una delle caratteristiche dello spirito tedesco... Ma è stato, poi, tutto veramente annientato? Qualche cosa, a guardar bene, è rimasto nel libro e rimane fino all’ultimo: è il senso della Kameradschaft; ancora un passo avanti, e che altro è mai questa Kameradschaft se non, ridotto all’essenziale, il senso risorgente della patria?».

Sfilano poi nella «vita del dopoguerra» i problemi della crisi, Fabian di Kästner, Elsa di Kesten: disoccupati di Frank, i quadri esattissimi della corruzione sessuale, e insieme pure in mezzo a tanta decadenza morale, «una certa seriosa accettazione della Vita (con la V maiuscola, ma fosse possibile, con tre maiuscole) quale conclusione e crogiuolo di tutti i misteri e insieme di nessun mistero che spesso significa: inno alla confusione». Tecchi ha presente un senso della vita piú classico, meno fittizio, dove la luce non sia qualcosa di voluto e di esagerato: «Ma anche quando un po’ di luce appare in tali romanzi (due romanzi storici del Neumann sul risorgimento italiano) è una luce lontana da noi; quasi inafferrabile per la nostra razza: idealismo umanitario, si direbbe, piú che umano, teorico piú che concreto e bensensato».

Ma anche lí il critico vuole cercare il valore sincero che si può celare sotto la retorica di costruzioni massicce di luci, ombre, incubi, tormenti psicanalitici, liberazioni elementari nel gesto pregno del vate; e non vuol senz’altro negare che da certe impostazioni di poetica possa nascere un risultato concreto.

Buone pagine di presentazione critica sono quelle in cui l’autore può esaminare certe tecniche meno vistose e pompose, piú razionali, sottili come quella di Zweig, o complesse come quella di T. Mann, specie nelle loro produzioni meno apparentemente impegnative (si veda il bel saggio su Unordnung und frühes Leid). Mentre, di fronte ai clamorosi successi che ora ci sembrano cosí irremediabilmente lontani, Tecchi sapeva già al momento trovare quella certa lontananza, diremmo posteriorità, che la critica deve unire al suo immediato e fresco interesse (si vedano le pagine su Wassermann).

Segue poi la parte dedicata agli scrittori piú recenti, i preannunciatori e gli scrittori del terzo Reich: dopo una premessa di limitazione storica (1938) circa la letteratura tedesca moderna («Non è un mistero per nessuno che la letteratura tedesca contemporanea è povera di grandi nomi di scrittori. Questa povertà è cominciata da un pezzo: forse già dagli anni dell’immediato dopoguerra, e gli sforzi di alcuni giovani affermatisi in questi ultimi tempi sono troppo recenti per dire se riusciranno in un compito difficile: quello di fecondare un campo da anni piuttosto magro e avaro...»), Tecchi tende a moderare gli entusiasmi spesso di origine spuria per certa poesia attuale (Weinheber considerato «il piú grande poeta tedesco dopo Hölderlin») e a rilevare i motivi essenzialmente stilistici in autori che come Tumler mostrano alla superficie intenti e passioni extraestetiche. Pagine piú ricche (per un panorama piú impegnativo degli scrittori del terzo Reich, si veda il recente volume di R. Bottacchiari, Poesia e poeti della Germania d’oggi, Perrella, 1941) sono dedicate agli scrittori piú genuini (Carossa, Wiechert), in cui il critico può rivelare un suo metodo di riprendere la personalità studiata dal suo nucleo originale verso la sua espressione artistica. Saggi piú lunghi e completi potrebbero certo dirci molto di piú, ma ci piace ripetere che, malgrado lo spezzettamento innegabile del libro, una impressione generale di quella letteratura risulta e permette l’idea di una sistemazione piú storica e volontaria.